Il 14 gennaio una sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha stabilito che lo Stato italiano dovrà risarcire per oltre 10 milioni di euro 371 cittadini che hanno contratto Aids, epatite B e C in seguito a trasfusioni di sangue o emoderivati infetti.
In Italia sono circa 120.000 i pazienti che tra gli anni ’70 e ’90 hanno ricevuto sangue infetto, così come 4.500 persone hanno perso la vita in conseguenza del contagio dai virus iniettati, perché sottoposti a trasfusioni per interventi chirurgici o per la cura di patologie del sangue, come l’emofilia e la talassemia. In quel periodo, diverse case farmaceutiche si sono rese responsabili del commercio di plasmaderivati prodotti con plasma prelevato da soggetti a rischio.
L’importazione di emocomponenti dall’estero dava via libera alla diffusione di emocomponenti derivanti anche da datori a pagamento, un importante fattore di rischio: la promessa di una ricompensa economica può spingere infatti i candidati a tacere le proprie reali condizioni di salute, pur di essere accettati da chi effettua il prelievo.
La sentenza di Strasburgo fa seguito a un’azione legale intentata a nome di diverse centinaia di pazienti, che si sono riuniti tra il 2012 e il 2013 per presentare il ricorso a Strasburgo, essendo stato dimostrato in sede di processo contro il Ministero della Salute il nesso fra le trasfusioni ricevute e il contagio. La decisione della Corte europea dei diritti umani ha messo in luce i ritardi inaccettabili che contraddistinguono le procedure di risarcimento, che superano in media i sette anni e motivano la condanna dello Stato per danni morali.
Grazie all’evoluzione promossa dalle associazioni di donatori, al giorno d’oggi non possono più ripetersi eventi di questo genere, perché la donazione gratuita di sangue garantisce altissimi livelli di controllo sulle sacche che giungono agli ospedali e ciascun donatore risponde ad una serie di requisiti molto specifici e soprattutto standardizzati.
Queste norme rigorose fanno sì che il sangue trasfuso in Italia possa essere definito sicuro, soprattutto dal punto di vista infettivologico. Il concetto è stato ribadito recentemente dal Centro Nazionale Sangue, un organo tecnico del Ministero della Salute che si occupa di coordinare e controllare la sicurezza del sistema trasfusionale nazionale.
È stato infatti dichiarato che il rischio è prossimo allo zero, riconoscendo un punto di forza indispensabile nel sistema della donazione volontaria, periodica, anonima, responsabile e non remunerata, oltre che nel fatto che la selezione dei candidati sia svolta innanzitutto da medici scrupolosi che si preoccupano di tutelare la salute dei riceventi, così come quella dei donatori stessi. Per questo, da oltre dieci anni in Italia non sono più state segnalate infezioni da HIV, epatite B e C, in seguito a trasfusioni.
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